«Diceva giustamente Flaubert che “la vita è tollerabile solo a condizione di non esserci mai”. Il problema è quello di trovare il modo più efficace, o meno dannoso, per ottenere tale risultato. Da parte sua, l’autore francese ne indicava uno, lo scrivere, “dannata mania” che è però nel contempo un “caro tormento”. E concludeva: “Senza di esso, occorrerebbe morire”». In questo frammento, citando Flaubert, Giuseppe Zuccarino osserva come si possa vivere non vivendo, restando ai margini della intollerabile esistenza subìta giorno per giorno. Una maniera efficace è quella di sparire nel tormentoso incanto della scrittura, nelle sue nebbie, dannandosi nel lavoro rigoroso, ostinato e solitario al fine di raggiungere una qualche incerta bellezza. Delle opere del Louvre, Alberto Giacometti diceva che sono «un tentativo abbastanza miserevole, così precario, un approccio balbuziente attraverso i secoli, in tutte le possibili direzioni, ma estremamente sommarie, primarie, ingenue, di circoscrivere un’immensità formidabile». Lo scrittore, come l’artista, sa che ogni opera non è altro che un tale abbozzo sommario. Tuttavia impugna il cucchiaio per svuotare il mare, immensità variabile e sempre sfuggente. Mentre fa questo, non vede più l’“intollerabile vita” ma solo il proprio ascetico destino, la tensione verso una “scrittura impossibile”.
«Diceva giustamente Flaubert che “la vita è tollerabile solo a condizione di non esserci mai”. Il problema è quello di trovare il modo più efficace, o meno dannoso, per ottenere tale risultato. Da parte sua, l’autore francese ne indicava uno, lo scrivere, “dannata mania” che è però nel contempo un “caro tormento”. E concludeva: “Senza di esso, occorrerebbe morire”». In questo frammento, citando Flaubert, Giuseppe Zuccarino osserva come si possa vivere non vivendo, restando ai margini della intollerabile esistenza subìta giorno per giorno. Una maniera efficace è quella di sparire nel tormentoso incanto della scrittura, nelle sue nebbie, dannandosi nel lavoro rigoroso, ostinato e solitario al fine di raggiungere una qualche incerta bellezza. Delle opere del Louvre, Alberto Giacometti diceva che sono «un tentativo abbastanza miserevole, così precario, un approccio balbuziente attraverso i secoli, in tutte le possibili direzioni, ma estremamente sommarie, primarie, ingenue, di circoscrivere un’immensità formidabile». Lo scrittore, come l’artista, sa che ogni opera non è altro che un tale abbozzo sommario. Tuttavia impugna il cucchiaio per svuotare il mare, immensità variabile e sempre sfuggente. Mentre fa questo, non vede più l’“intollerabile vita” ma solo il proprio ascetico destino, la tensione verso una “scrittura impossibile”.